La fine delle vacanze estive, per gli amanti della Formula 1 come me, coincide con il ritorno alle gare – all’adrenalina legata a queste competizioni automobilistiche nei circuiti tempi della velocità.
Dopo qualche anno di offuscamento a livello di attenzione sia mediatica che industriale, la classe regina del motorsport è riassunta agli onori delle cronache a livello. È dell’ultimo weekend la conferma che Audi entrerà nel circus nel 2026, e una notizia simile è attesa dalla Porsche.
C’è una apparente distonia in questo fervore nella percezione di molte persone, e si tratta in prevalenza di non appassionati o informati. La Formula 1, a prima vista, mal si concilia con l’epoca di sfida ecologica che attraversiamo, con la transizione elettrica e carbon neutral. L’ingresso di Audi dovrebbe tuttavia far riflettere, visto il focus comunicativo di questa casa verso l’elettrico.
Formula 1 e sostenibilità
La Formula 1 è il più avanzato laboratorio tecnologico dell’industria automobilistica. I motori delle monoposto di Formula 1 sono i più efficienti possibili, al limite delle possibilità della scienza. La cilindrata di una vettura formula 1 è oggi, e rimarrà, di 1600 cc, come quelle delle vetture di classe media comunemente disponibili per normali utenti dell’industria. Ma se nella normalità di tutti i giorni queste auto hanno una potenza tra i 100 e i 150 cavalli, le monoposto di formula 1, con una sovrastruttura tecnologica di turbo e motori elettrici, arrivano a 1000 cavalli.
Ad oggi la parte elettrica contribuisce per circa un quinto alla potenza totale. Nel 2026, la parte elettrica costituirà il 50% della potenza e i motori a combustione dovranno essere azionati al 100% da carburanti sintetici.
Ecco – la rivoluzione è che i carburanti sintetici (definiti anche air-to-fuel) possono essere ottenuti da Co2 e idrogeno, e all’utilizzo nella combustione non producono emissioni. In questo senso, questi sono altrettanto “verdi” quanto l’energia elettrica, entrambi dunque funzione della fonte energetica utilizzata a monte del processo produttivo.
Ho divagato, apparentemente e fino ad un certo punto. Gli investimenti in sostenibilità sono il tema chiave per il private equity del futuro.
Private equity e Formula 1
In realtà, il private equity e la Formula 1 sono intimamente legati. Lavoravo a Salomon Brothers nel 1997 per l’interniship del mio master in finanza, quando per la prima volta ho visto da vicino il primo sforzo delle banche d’affari di portare i fondi di private equity nel mondo della Formula 1 in preparazione ad una possibile quotazione in Borsa dell’iniziativa. Ai tempi il team in cui lavoravo, se non ricordo male, stava lavorando per portare CvC a fare l’investimento, in quella fase senza successo.
Il primo passo del private equity in Formula 1 avvenne nel 1999 quando Morgan Grenfell Private Equity acquisì una partecipazione di minoranza. In quel caso, incidentalmente, lavoravo per la divisione di investimenti sui mercati quotati di Morgan Grenfell, per cui non mi sono potuto “godere” la transazione.
Tralasciando i risvolti personali che da quel momento divengono distanti, la Formula 1 ha visto entrare nel proprio capitale i fondi di Hellman and Friedman nel 2000 e vendere velocemente al media mogul tedesco Kirch, che venne poi travolto dallo scoppio della tech bubble. La Formula 1 venne salvata dai creditori di Kirch, le banche internazionali. Solo dopo qualche anno, nel 2005, e non senza battaglie e alchimie legali che hanno prodotto una delle “side-letter” più famose della storia, nota come il Patto della Concordia, la Formula 1 finì nelle mani dei fondi di CvC, che con varie vicende l’hanno con molto successo finanziata e traghettata nel 2016 nelle mani degli attuali proprietari della Liberty Media del mogul americano John Malone.
La Ferrari vince sempre e la lezione per il private equity
Ahimè questo è parzialmente vero, “solo a livello di side letter” legale, perché noi tifosi della Rossa aspettiamo da 15 anni un mondiale. Ma nelle carte del palazzo e per i proprietari della Formula 1 attuali e passati, il nome Scuderia Ferrari ha costituito e costituisce un bel pezzo dell’appeal della Formula 1.
La Scuderia non è solo la squadra più vincente ma è anche e soprattutto l’unico il costruttore ad aver partecipato ininterrottamente a tutte le edizioni del campionato Mondiale di Formula 1, nato nel maggio del 1950 a Silverstone (vinta dall’Alfa Romeo con L’Alfetta 158 di Farina). Ad onor del vero, la Ferrari iniziò a partecipare dalla seconda gara in Belgio perché la 275 F1 era ancora in sviluppo. Ma da quella data la Scuderia Ferrari ha rappresentato la Formula 1 e la massima espressione del motorsport, contribuendo a crearne legacy e goodwill.
Questi fattori si perpetuano ancora oggi nei diritti che la Ferrari vanta sulla Formula 1, alcuni di veto, altri di influenza e infine alcuni economici.
Il pool di premi spettanti, quota parte degli incassi mediatici e organizzativi del circus della Formula 1 viene attribuito secondo una logica meritocratica, chi vince prende di più. Tuttavia, in virtù del proprio status la Ferrari ha altri meriti che vanno remunerati, in quanto goduti da tutti gli altri team che solo successivamente nel tempo sono entrati nel circus. Secondo fonti giornalistiche per il 2021 questa somma viene quantificata in base al denaro da suddividere ai team: se resta sotto il miliardo di dollari si attesta al 5%, sale al 6% tra 1 e 1,05 miliardi, poi all’8% tra 1,05 e 1,1 miliardi, sino al 10% oltre gli 1,1 miliardi.
La lezione per gli investitori del private equity è duplice. Guardare bene agli incentivi e costruire nel tempo la propria legacy. Ciò non significa che basta il tempo per far guadagnare – ed essere pazienti, occorre performare ed investire per veder riconosciuta una propria capacità di leadership. Altre case hanno provato e molte hanno un brand rispettabile e ben valutato. La Ferrari è il parametro di eccellenza.