Il mio esordio, facilmente identificabile per chi mi legge da tempo, passa spesso per un’allusione a un mondo che non appartiene a ciò di cui dovrei parlare. Ma qui, signori, a pensarci, non direi che si stia parlando d’altro. Perché con “toccare il fondo” e “presa di coscienza” siamo arrivati a mettere in dovuta evidenza fatti che casuali non possono più esserlo.
Diciamocelo. Con amara immediatezza si può e si deve prendere atto di una vera e propria esclusione, se non eccezione, nel panorama cui si sta assistendo da qualche mese. Sto parlando degli Stati Uniti, che di consapevolezza se non anche di capacità di coerenza ne hanno mostrata ben poca, a riguardo di due temi che si sono mossi a braccetto. Guerra e inflazione. Avrei voluto dire guerra e pace, ma non posso. Proprio perché gli USA, proprio per la loro mancata assunzione di coscienza, hanno continuato a esserci solo come sempre. Occupati solo da un lato. Apparentemente sufficiente a dirimere il caso. A risparmiargli la caduta finale, quella con cui si arriva a toccare il fondo.
Facile? No, certo. Nell’occuparsi dell’annosa questione dell’inflazione non c’è niente di facile. Così a oggi, anzi fino a mercoledì scorso, gli Stati Uniti hanno potuto in qualche modo occuparsene, della guerra, ma solo perché compromettente nel panorama del più irruente e più sollecitante problema del calvario dell’inflazione. Peccato che, come capita spesso, e qui spero mi si possa concedere questa digressione attinente la vita in generale, quando non si guarda davvero il fondo e non si arriva a sentire un problema nella sua crudezza, con tutte le sue conseguenze senza controllo, capita che la situazione inizi a sfuggire di mano. Anche agli Stati Uniti.
Ma come? Non era America First? No, vero, quella era un’espressione del passato, per lo più negativa perché alludeva alla pretesa dell’America di poter in fondo fare da sola ed essere prima sempre. Be’, mi spiace, perché qui non solo l’America sta mostrando di non poter candidarsi a questo primato, ma soprattutto sta rischiando di non passare l’esame del mercato finanziario. Cui tiene molto. Gli italiani sono risparmiatori, gli americani investitori. Non mi attardo a considerare le mancate o inefficienti azioni del presidente americano. Perché qui parliamo di Borsa e di finanza. Appunto. Bene o male, fino alla caduta di mercoledì 18 maggio si poteva ancora pensare, a fatica certo, di assistere alla classica flessione del mercato, e che dopo i passi da gigante dei due anni precedenti (ci metto dentro il 2020, dati i rimbalzi inequivocabili) non si potesse che atterrare da qualche parte nel consueto ciclo economico, che prevede sempre, dopo la fase del surriscaldamento dell’economia, l’inevitabile raffreddamento. Ma forse, e sbaglierò magari a vedere di più di quello che va visto, la caduta di mercoledì di quegli oltre 1000 punti persi in singola giornata al DJ (per non parlare del Nasdaq, l’imputato speciale di questi tempi) sta facendo vedere come si sia arrivati o si stia per arrivare a un momento di cruda e severa consapevolezza, finalmente necessaria per gli Stati Uniti. Una consapevolezza che porti a guardare il fondo per ripartire da lì, e iniziare davvero a guardare i due temi – guerra e inflazione – come due temi da affrontare finalmente da protagonista.
In tanti momenti dall’inizio dell’anno la Fed si è espressa sulla necessità di un periodo non breve di sofferenza, di una stretta irrinunciabile per tornare a una situazione accettabile. Ma era sempre la versione della Fed sul livello di inflazione. Una questione classica, insomma, da manuale. Tipica, di competenza della banca centrale. E i livelli della Borsa hanno registrato questo sentiment (si dice così nelle nostre stanze), in un’alternanza tra giorni sì e giorni no, che in qualche modo, anche se a livello di giorni, ha permesso azioni di recupero e forse manifestazioni di destrezza da parte di abili tecnici preparati sui cosiddetti livelli di supporto e resistenza. Fino a mercoledì 18 maggio, appunto, in cui sembra essersi visto un momento più radicale di noncuranza, di non sufficiente presa di coscienza di cosa occorra fare veramente.
La domanda che tutti da tempo ormai si fanno è la stessa: quale sarà il fondo? Da quale livello si ripartirà? Si è arrivati alla fine? Forse la chiusura dei mercati del 18 maggio può essere identificata come una giornata di inizio di questa fine, che costringerà gli USA a guardare finalmente il fondo. E non riguarda solo la solita questione della necessità di una stretta economica per sistemare i prezzi, per far tornare l’economia a tassi reali. Perché c’è nel contempo un piccolo problema di cui a oggi, o meglio (insisto) fino al 18 maggio, gli Stati Uniti non hanno voluto occuparsi nel dovuto modo, pensando di avere un problema diverso e più preoccupante. Ma come si dice, quando si tocca il fondo capita di riuscire a guardare più lontano, intercettando il vero punto di svolta da dove può partire la soluzione del problema. Che lo straordinario caso del livello dell’inflazione che non si vedeva da 40 anni trovi la soluzione non solo nella risposta (che poi soluzione non è) più immediata e più semplice, ma piuttosto in quella che richiede una presa di coscienza e una nuova azione risolutiva del vero problema che si chiama guerra? Suggerimenti che si stia arrivando a una possibile svolta nel conflitto si riescono a intercettare nelle notizie, ma sono appunto notizie, e spesso peccano di contraddizione. Resta il fatto che mercoledì 18 maggio la caduta della Borsa americana ha fatto e ha mostrato una differenza. E forse è un bene che sia successo, perché è l’unica eco, quella della Borsa, che il presidente americano può e deve ascoltare. Per cambiare le cose. A meno che non voglia essere confermato il prossimo novembre. E questa non possiamo davvero dire che sia “un’altra storia”.
Alla prossima!