Il volume del debito interessato è quasi raddoppiato a 353,4 miliardi di dollari rispetto al 2019 (quanto il valore delle insolvenze si era fermato a 183 miliardi). L’importo medio del debito per inadempiente nel 2020 è stabile a 1,6 miliardi
S&P sottolinea che solo dieci dei default del 2020 avevano un rating investment grade, mentre gli altri 216 (ovvero il 96% del totale) avevano un rating speculativo. Ma nell’anno c’è stato un significativo deterioramento del credito, con un tasso di upgrade eccezionalmente basso (2,8%) e uno dei più alti tassi annuali di downgrade (18,5%)
“Delle 198 società che sono entrate in default nel 2020 e che sono state valutate all’inizio dell’anno, tutte tranne 12 si trovavano nella categoria B o inferiore, e il 57% era nella categoria CCC/C, pari a un coefficiente di Gini globale annuo dell’86,1%”, sintetizza Nick Kraemer, Head of Ratings Performance Analytics. Il coefficiente di Gini è una misura della diseguaglianza di una distribuzione, in questo caso dei rating su un dato orizzonte temporale, da uno a sette anni e mostra lo scostamento tra le prestazioni effettive di ordinamento dei rating e quelle di ranking teoricamente perfetto.
A Kraemer We Wealth ha chiesto come vede il 2021, e la risposta è poco confortante. “Ci aspettiamo che il tasso di default delle aziende europee di speculative-grade a 12 mesi raggiunga il 6,5% entro fine anno rispetto al 5,3% di dicembre 2020. In questo scenario di base potremmo avere 47 società speculative-grade in default”, spiega. C’è anche uno scenario ottimista in cui “il tasso di default potrebbe scendere al 3% entro dicembre 2021, con 22 default, mentre nel nostro scenario pessimista riteniamo che il tasso di default raggiungerà il 9%, con 66 default”.
Ma il quadro è profondamente incerto. “L’iniziale ottimismo del mercato, dovuto allo sviluppo dei vaccini nel 2020, è ora smorzato dai ritardi delle campagne vaccinali. Tuttavia le chiusure hanno avuto un impatto economico minore rispetto ai primi lockdown di inizio 2020 e questo ha supportato l’economia europea – continua Kramer – Le misure fiscali e monetarie, che hanno contribuito contenere il numero di default, considerate le circostanze, dovrebbero diminuire. Al di là delle previsioni, la rimozione di questi fattori di sostegno potrebbe portare ad un aumento dei livelli di default”.
E già il 2020 è stato un anno difficile con i default aumentati a 226 in totale e il tasso globale sui 12 mesi salito oltre un punto sopra la sua media storica annua (che è del 4% dal 1981) e più che raddoppiato rispetto al 2,5% nel 2019. Poco sotto i 235 casi di insolvenza registrati nel 2009. Il tasso di insolvenza è aumentato negli Stati Uniti (al 6,6%), in Europa (5,3%), nei mercati emergenti (3,1%) e negli altri paesi sviluppati (5,9%). La grande maggioranza dei default (146) riguarda società negli Stati Uniti e paradisi fiscali associati (Bermuda e Isole Cayman). L’Europa sue con 42 default, i mercati emergenti con 28 e il resto del mondo sviluppato (Australia, Canada, Giappone e Nuova Zelanda) con 10.
I settori predominanti sono quelli legati ai servizi ai consumatori, all’energia e alle risorse naturali che hanno da soli rappresentato il 54% del totale (o 122 casi). Altri sette settori hanno segnato tassi di insolvenza nel 2020 che hanno superato le loro medie a lungo termine: tempo libero/media, trasporti, telecomunicazioni, sanità, prodotti chimici, immobili, servizi pubblici e hi-tech-Itc.
Coerentemente con l’aumento del numero di insolvenze nel 2020, il volume del debito interessato è quasi raddoppiato a 353,4 miliardi di dollari rispetto al 2019 (quanto il valore delle insolvenze si era fermato a 183 miliardi).
L’importo medio del debito per inadempiente nel 2020 era tuttavia lo stesso del 2019: 1,6 miliardi di dollari. Un valore leggermente a quello medio post-Lehman Bros, di 1,4 miliardi.
Il più grande default nel 2020 è stato del provider di telecomunicazioni Usa Frontier Communications Corp., con 22,5 miliardi di dollari (6,3%) del debito in essere per l’anno. Anche tra le società quotate spiccano gli Usa, con il default di Constellis nel settore aerospaziale, di Toms Shoes e di Sal Acquisition group. Nell’elenco c’è anche l’italiana Moby, nei trasporti via mare.
S&P sottolinea che solo dieci dei default del 2020 erano inizialmente classificati come investment grade, mentre gli altri 216 (ovvero il 96% del totale) avevano un rating speculativo.
Il deterioramento del credito è stato poi significativo nel 2020, con un tasso di upgrade eccezionalmente basso (2,8%) e uno dei più alti tassi annuali di downgrade (18,5%), il più alto dal 2009. Questo ha portato il rapporto downgrade-to-upgrade a un nuovo massimo del 6,6% (un rapporto dell’1% indica che i downgrade e gli upgrade sono nella stessa proporzione).
Contestualmente, nel 2020, l’emissione di obbligazioni corporate ha raggiunto il massimo storico, in gran parte dopo che sia Fed, sia Bce hanno creato enormi linee di liquidità a marzo, in risposta alla pandemia. Le emissioni obbligazionarie globali combinate hanno raggiunto 5,7 trilioni di dollari, un aumento del 27% dal massimo precedente del 2019.
Gli spread delle obbligazioni di grado speculativo negli Stati Uniti sono aumentati a 991 punti base (pb) a marzo, ma ha chiuso l’anno a 434 punti base. Non ci sono stati declassamenti tra le otto società con rating AAA nel 2020. Ma le bocciature hanno coinvolto società con livelli di credito già in bilico, tanto che alla fine del 2020, gli emittenti di livello speculativo sono diventati nuovamente la maggioranza globale, il 50,3% degli emittenti con rating, dal 49,9% di inizio anno.
Dei 622 emittenti a cui S&P Global Ratings ha assegnato per la prima volta un rating nel 2020 (da 650 nel 2019 e 875 nel 2018), il 78% ha ricevuto un giudizio speculativo.
Insomma le nubi neri all’orizzonte si addensano sull’economia.