Anzitutto, da molte parti è considerato probabile che se venisse introdotta un’imposta patrimoniale in Italia, questa avverrebbe sotto forma di una maggiorazione dell’imposta di bollo.
L’altro aspetto particolarmente odioso riguarda la circostanza che l’imposta di bollo è applicata anche quando i titoli non generano redditi o persino perdono di valore.
Infine, è applicata su una grandezza lorda dalla quale, ad esempio, non possono essere dedotti i finanziamenti per mettere a leva il portafoglio, si pensi al caso tipico del credito lombard o della messa a pegno dei titoli.
La conseguenza è che non solo le polizze vita, ma anche tutti i titoli facenti parte di una gestione patrimoniale (fondi, azioni, obbligazioni, ecc.) affidati a un intermediario finanziario italiano ricadono nell’ambito di applicazione dell’imposta di bollo.
L’esenzione dal tributo nei confronti dei neo-residenti per altro non genererebbe una perdita di gettito in quanto sarebbe compensata da altri tributi, che si renderebbero applicabili alle gestioni patrimoniali. In particolare:
– i servizi di consulenza finanziaria e di gestione patrimoniale, comprese le commissioni di performance e le commissioni di deposito titoli, sono soggetti a Iva con l’aliquota ordinaria, ovvero al 22% (cfr. ris. agenzia delle Entrate n. 38 del 15 maggio 2018);
– le commissioni di negoziazione sono invece esenti da Iva (art. 10, c. 1, n. 4, DPR n. 633/1972). I soggetti neo-residenti, infatti, seguono le stesse regole Iva dei soggetti residenti in Italia in regime ordinario.
Risulta evidente che con una commissione di poco inferiore all’1%, il fisco avrebbe già recuperato l’intero gettito dell’imposta di bollo.
In effetti, una commissione di gestione dell’1% risulta un po’ elevata per gli standard di mercato attualmente praticati. Tuttavia, va sottolineato che le società italiane pagano l’Ires (24%) e l’Irap (3,9%) sugli utili prodotti. Per altro, entrambe le imposte prevedono una maggiorazione di aliquota per i soggetti finanziari. Infatti, ai fini Ires gli enti creditizi, ma non le sim e le sgr, subiscono una maggiorazione dell’aliquota sotto forma di addizionale pari al 3,5% (art. 1, c. 65, L. n. 208/2015). Ai fini Irap, l’aliquota per gli intermediari finanziari e altri enti e società finanziarie è aumentata dal 3,9% al 4,65%, oltre eventuali maggiorazioni su base regionale e la base imponibile è particolarmente penalizzante perché non ammette in deduzione taluni costi finanziari.
Ciò comporta che la tassazione sugli utili degli intermediari finanziari varia da un minimo del 27,9% (24% + 3,9%) a un massimo del 32,15% (24% + 3,5% + 4,65%) oltre eventuali addizionali.
A conti fatti, basterebbe una commissione sulle gestioni patrimoniali dei neo-residenti pari allo 0,4% (40 bps) per compensare con Iva, Ires e Irap il mancato gettito dell’imposta di bollo.
Per altro, alcuni gestori esteri fatturano le commissioni di gestione ai clienti italiani senza applicazione dell’Iva, perché trattasi di prestazione di servizi resa a un soggetto non residente. Così avviene già, ad esempio per Svizzera e Stati Uniti, mentre per il Regno Unito solo post Brexit.
Di conseguenza, i gestori italiani subiscono una doppia penalizzazione rispetto agli omologhi esteri nei servizi offerti ai neo-residenti, ovvero l’applicazione dell’Iva (22%) sulle commissioni e l’assoggettamento all’imposta di bollo (2‰) sulle masse.
Mutatis mutandi, l’analisi sopra esposta con riferimento ai soggetti neo-residenti può essere estesa alle gestioni patrimoniali effettuate nei confronti dei soggetti non residenti, che di fatto seguono le stesse regole di tassazione.
Anzitutto, l’applicazione di un’imposta patrimoniale sui titoli di soggetti esteri è un’anomalia solo italiana. Come già scritto in questa sede, l’imposta di bollo è a tutti gli effetti un’imposta patrimoniale, che non dovrebbe essere applicata ai residenti di Stati, che sono legati all’Italia da una convenzione contro le doppie imposizioni basata sul modello Ocse. Ai sensi delle convenzioni solo lo Stato di residenza è autorizzato ad applicare un’imposta sul patrimonio dei propri residenti, non lo Stato dove questo è depositato o gestito. Per tale ragione, gli Stati esteri che applicano un’imposta patrimoniale sui beni dei propri residenti, fra cui gli asset finanziari (es: Svizzera, Spagna, Norvegia, ecc.), difficilmente accettano di riconoscere un credito di imposta per le imposte patrimoniali pagate all’estero.
Per contro, non è possibile scomputare eventuali imposte patrimoniali estere (ad esempio, l’imposta sulla sostanza svizzera) dall’imposta di bollo italiana, a differenza di quanto avviene per l’Ivafe.
Ciò penalizza gli operatori italiani rispetto agli altri gestori nel mondo, i quali sono situati tipicamente nelle maggiori piazze finanziarie, quali New York, Londra o la Svizzera, dove non sono applicate imposte patrimoniali ai soggetti esteri.
All’imposta di bollo va aggiunta l’Iva (22%) sulle commissioni ai clienti residenti in uno Stato membro dell’Unione Europea (art. 7-ter, c. 1, lett. b), Dpr n. 633/1972). Per contro, l’Iva non è applicabile nei confronti dei soggetti extra Ue, perché l’operazione è fuori campo per carenza del requisito territoriale (art. 7-septies, c. 1, lett. d), Dpr n. 633/1972).
Nella pratica, non bisogna pensare solo agli (U)hnwi, che possono scegliere i migliori gestori finanziari al mondo. Vi sono anche molti italiani, alcuni dei quali facoltosi, che ogni anno trasferiscono la residenza dall’Italia all’estero passando dallo status di residente a quello di non residente. In molti casi vorrebbero mantenere la relazione con i gestori italiani a cui sono legati da anni di rapporto di fiducia. Tuttavia, anche a loro gli intermediari italiani devono continuare ad applicare l’imposta di bollo e l’Iva (se trasferiti in uno Stato Ue).
Di conseguenza, al pari dei soggetti (neo) residenti, anche i soggetti non residenti sono esposti al rischio di essere colpiti da una eventuale imposta patrimoniale italiana veicolata sotto forma di maggiorazione dell’imposta di bollo, di nuovo in violazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni. L’esperienza del prelievo forzoso del governo Amato nel 1992 rafforza questo timore, posto che all’epoca furono esclusi solo i conti e i depositi delle rappresentanze diplomatiche e consolari estere e di quelle internazionali (art. 7, c. 6, Dl n. 333/1992).
Il mancato gettito generato dalla non applicazione dell’imposta di bollo alle gestioni nei confronti dei soggetti residenti fuori dalla Ue potrebbe essere compensato dal maggior gettito Ires e Irap, ma non anche Iva che, come accennato, non è applicabile per carenza del requisito della territorialità. In questo caso, le commissioni dovrebbero ammontare allo 0,7% (70 bps) per neutralizzare il mancato gettito.
Non meno importante ai fini della presente analisi, la circostanza che i gestori italiani tendenzialmente inseriscono più titoli domestici nei portafogli dei clienti rispetto ai gestori esteri con benefici per la finanza e il gettito italiani.
Inoltre, per ragioni regolamentari, i gestori italiani sono incentivati, se non obbligati in certi casi, a utilizzare banche depositarie italiane. Ciò oltre a generare commissioni di deposito imponibili ai fini Iva, porta con sé il rischio che i redditi diversi, cioè i capital gain sui titoli, vengano attratti a tassazione in Italia. Infatti, in una risposta di dicembre scorso, l’agenzia delle Entrate ha ritenuto che i capital gain su titoli detenuti da un soggetto neo-residente su un conto deposito presso un intermediario italiano siano imponibili in quanto rileva il luogo in cui si trovano.
Nel caso dei soggetti non residenti, invece, occorre distinguere sulla base dello Stato in cui sono residenti. Infatti, se residenti in uno Stato che effettua lo scambio di informazioni con l’Italia (vedi Dm 4 settembre 1999), come la grande maggioranza degli Stati (attualmente 134), il rischio di attrazione non sussiste perché i capital gain su titoli non sono imponibili (art. 5, c. 5, 461/1997), come neanche gli interessi. Se invece residenti in Stati diversi da quelli della cosiddetta white list, allora il rischio di attrarre a tassazione i capital gain è concreto.
In conclusione, l’abolizione dell’imposta di bollo sui patrimoni finanziari dei soggetti neo-residenti e non residenti, oltre a rendere le gestioni italiane più competitive nel panorama internazionale, avrebbe un fondamento sia sotto il profilo logico-sistematico (perché l’esenzione dall’IVAFE, ma non dall’imposta di bollo?), che giuridico, in quanto rispettoso delle disposizioni contenute nelle convenzioni contro le doppie imposizioni.
Inoltre, il mancato gettito dovuto all’abolizione dell’imposta di bollo sarebbe compensato dagli altri tributi (Iva, Ires, Irap) che si renderebbero applicabili alle gestioni patrimoniali.