Il dato, reso noto nel corso del question time alla Camera del 26 maggio scorso dal ministro dell’economia Daniele Franco, per certi versi ha deluso le aspettative. Entra infatti nelle casse statali circa 1/3 del maggior gettito (708 milioni annui) stimato dai servizi studi di camera e senato basati sulla Relazione annuale 2019 Agcom.
Va detto comunque che il dato degli incassi in queste settimane ha ceduto il passo alle misure che rimpiazzeranno l’imposta e il gettito che ne deriva. L’attenzione della comunità internazionale è ora focalizzata sugli sviluppi nelle trattative Ocse/G20 sulle misure attuative dell’Action 1 del progetto Beps (two-pillar package) finalizzate al restyling dei principi internazionali di tassazione ormai inadeguati al contesto dell’economia digitale.
Trattative, peraltro, intensificatesi negli ultimi mesi grazie anche al nuovo slancio dovuto all’apertura della nuova amministrazione Usa rinunciataria alla presa di posizione di considerare il proprio territorio alla stregua di un “safe harbur” per le società americane.
Sono due le misure di maggiore rilievo che si abbatteranno sui giganti del web per porre un freno alle loro politiche di pianificazione fiscale aggressiva e così ripristinare fair taxation e tax morale. Resteranno comunque fermi i rimedi fiscali internazionali a presidio della doppia imposizione (come per esempio, credito ed esenzione) e della prevenzione e risoluzione delle controversie (Map).
La prima misura prevede una rielaborazione coerente con l’economia digitale dei principi tributari internazionali di collegamento rilevante con un territorio e di ripartizione del potere impositivo su una porzione di redditi imponibili delle multinazionali del web (Pillar 1). Ad essere colpite sono solo le big del settore, con fatturato globale superiore a 20 miliardi di euro (23,7 miliardi di dollari), ridotti a 10 al verificarsi di certe condizioni, e redditività (ante imposte) sopra il 10%. La presenza si considera rilevante su un territorio quando la multinazionale vi realizza almeno 1 milione di ricavi di euro (1,18 milioni di dollari), soglia abbassata a 250mila euro (296mila dollari) per le giurisdizioni più piccole con un pil inferiore a 40 miliardi di euro (47 miliardi di dollari). Il meccanismo prevede che il 20-30% della porzione di utili imponibili eccedente il 10% dei ricavi realizzati venga attribuita, in base a una chiave di allocazione, alle giurisdizioni in cui vi è una presenza territorialmente rilevante.
La seconda misura (Pillar 2), in questi giorni al centro di accesi dibattiti politici e mediatici, è destinata a garantire che i gruppi multinazionali vengano assoggettati a un livello medio di tassazione su base mondiale almeno pari al 15% (global minimum tax). Anche in questo caso si tratta di una misura destinata a incidere sulle grandi multinazionali con ricavi complessivi pari o superiori a 750 milioni di euro (circa 888 milioni di dollari).
Il Pillar 2 si sostanzia in due componenti da coordinare con il principio per evitare l’erosione di base imponibile globale (GloBe). La prima fondata su due regole, l’una prevede la tassazione a livello della casa madre dei redditi provenienti da controllate localizzate in paesi a bassa fiscalità (Income Inclusion Rule) l’altra dispone l’indeducibilità di pagamenti cross-border o di rettifiche reddituali laddove i redditi di una controllata localizzata in paese a bassa fiscalità non siano tassati in virtù dalla prima regola. Mentre la seconda è costruita sulla base della regola (The subject to tax rule) che consente al Paese della fonte di imporre una tassazione ridotta su taluni pagamenti tra consociate tassati al di sotto di certe soglie.
In estrema sintesi, il meccanismo della global minimum tax prevede che il Paese della capogruppo tassi il reddito globale dell’intero gruppo in modo tale che il suo carico fiscale complessivo, anche per effetto di compensazione tra aliquote superiori e inferiori (al 15%), non sia al di sotto dell’aliquota del 15%.
Complessivamente il Pillar 2 si presenta come una misura di giustizia sociale che tuttavia pare fin troppo affidare le sorti della riuscita alla multilateralità e all’adesione totalitaria dei Paesi Ocse difettano le quali vi sarebbero effetti distorsivi nell’applicazione della global minimum tax.
Il dato di maggiore interesse almeno per il momento è rappresentato dal maggior gettito derivante dall’implementazione delle misure che parrebbe capace di rimpinguare consistentemente le casse dei Paesi membri.
Difatti, secondo le stime dell’Ocse i due Pillar a regime porteranno ogni anno maggiori introiti per almeno 250 miliardi di dollari da ripartire tra i Paesi membri interessati.
Gli effetti per le casse dello Stato italiano non sarebbero di poco conto.
Le stime mostrano che con l’aliquota di tassazione minima al 15% si avrebbero 2,7 miliardi di euro in più che naturalmente aumenterebbero qualora, come proposto dal presidente americano Joe Biden e dal segretario al Tesoro, Janet Yellen, l’accordo definitivo prevedesse il 21% o addirittura il 25%.
Al cospetto di queste cifre, capaci da sole di finanziare interi capitoli di spesa pubblica, la web tax, le criticità che ne hanno accompagnato la seppur breve esistenza così come le deludenti performance dei corrispondenti incassi erariali diverranno un vago ricordo.