Lo statuto delle fondazioni filantropiche di tipo ‘chiuso’ può specificare i meccanismi da mettere in atto in caso di recessione del fondatore. Anche in caso di decesso
Nel caso delle fondazioni di tipo ‘aperto’ il recesso è più semplice: il fondatore rinuncia alla qualifica e ai diritti correlati, come quelli amministrativi
In Italia chi esce da una fondazione non può trasferire beni a un’eventuale nuova fondazione da lui creata
Oltre che alimentare il gossip, la notizia pone quesiti interessanti anche per il nostro paese. In Italia è possibile che recedere da una fondazione? Quale sarebbe il futuro di un ente all’indomani della separazione dei sui fondatori? Lo abbiamo chiesto a Francesco Florian, docente di legislazione dei beni culturali presso l’Università Cattolica.
Il caso dei reali suggerisce una domanda: come è possibile recedere da una fondazione privata in Italia?
L’ordinamento anglosassone da questo punto di vista è molto diverso. In Italia occorre distinguere tra due tipi di fondazioni, quelle di tipo ‘chiuso’ e quelle di tipo ‘aperto’. Nelle fondazioni chiuse – come quelle filantropiche per eccellenza – dipende da come è strutturato lo statuto. Questo può prevedere dei meccanismi da mettere in atto nel momento in cui il fondatore decida di recedere. Il caso più semplice è quello in cui il fondatore passa a miglior vita, perché esiste un sistema di successione della carica.
E in quelle di tipo aperto?
Queste ultime hanno la possibilità di adesione di altri soggetti in un momento successivo alla loro costituzione. Il recesso è quindi più semplice, anche perché non si parla di soggetti fondatori, quanto piuttosto di ‘aderenti’, o ‘sostenitori’. Lo schema di queste fondazioni somiglia a quello associativo e non si può parlare di recesso in senso tecnico, ma caso mai di ‘rinuncia’ alla qualifica.
Tornando alle tradizionali fondazioni filantropiche, cosa può succedere in caso di recesso da parte di un fondatore?
La costituzione di una fondazione è sempre un contratto unilaterale: se ci fossero 100 fondatori, ci sarebbero 100 atti unilaterali. La rinuncia alla qualifica, e quindi ai diritti connessi, potrebbe comportare un problema statutario di funzionamento dell’ente. Bisogna vedere cosa è previsto dallo statuto. Di solito le fondazioni prevedono sempre l’eventuale diritto di recesso o la possibilità che venga meno per qualunque causa il fondatore. A quel punto si può creare un meccanismo per cui la fondazione vada avanti.
Ma il fondatore può davvero rinunciare ai suoi doveri?
Bisogna partire dal presupposto che la fondazione si basa su un apporto patrimoniale costituito da una liberalità: è una donazione fatta dal fondatore. Come tale, nel nostro ordinamento non c’è la possibilità di definirlo come “rapporto obbligatorio”: non è un conferimento. Di conseguenza una volta che ho acquisito la qualifica di fondatore, vi posso sempre rinunciare ‘sfilandomi’ dalla fondazione. È qui che – se l’ipotesi è prevista dallo statuto – si applicano i meccanismi statutari perché la fondazione possa andare avanti indipendentemente dal fondatore.
Se il fondatore rinuncia – rinunciando quindi anche a tutti i diritti amministrativi, magari comporre il cda piuttosto che nominarlo – allora il nostro ordinamento si pone un problema di funzionamento della fondazione e interviene la procura o la regione a seconda che la personalità giuridica sia a livello regionale o nazionale.
Cosa succede poi?
È l’autorità governativa che decide se ricostituire il cda – adottando provvedimenti tesi alla continuità dell’ente -, nominare un commissario che proceda alla liquidazione, oppure far confluire i beni della fondazione in un’altra con scopo analogo. Se una fondazione è stata costituita per sostenere i giovani talentuosi negli studi, ad esempio, non si potrà confluire beni e patrimonio in un che si occupa di ricerca sul dna (a meno che non destini fondi per la formazione di giovani meritevoli che studiano il dna).
In questo caso chi rinuncia può trasferire parte dei beni a un’eventuale nuova fondazione da lui creata?
In Italia no, non è possibile. Nel momento in cui si rinuncia alla qualifica e ai poteri collegati al ruolo di fondatore ciò che ho dato alla fondazione resta, non posso portare via niente. Proprio perché è una buona azione: è come se – per dire – una nonna donasse al nipote la propria casa e poi volesse riprendersela. Non funziona così.
Non è neanche possibile nel caso in cui fosse la stessa volontà di tutti gli amministratori della fondazione creare due enti diversi?
Si, si possono creare due enti diversi. Ma è un’ipotesi diversa. Io posso scindere una fondazione, a maggior ragione oggi con la riforma del Terzo settore, che ha introdotto il 42bis che prevede le scissioni in senso tecnico. A quel punto sono io fondazione che do vita a un altro ente e pongo ad amministrarlo magari alcuni fondatori che se ne vogliono andare. Ma non è il fondatore che può scegliere di portare via una parte del patrimonio. Questo in Italia non è possibile.
Il principe Harry ha lasciato la Royal Foundation per fondare – probabilmente – un altro ente negli Usa, patria della sua nuova moglie. Le fondazioni italiane possono operare all’estero?
Si, certamente. Occorre sempre guardare dove è ubicato il soggetto destinatario dei beni e verificare se c’è qualche accordo tra il paese di fondazione e lo stato destinatario. A livello europeo sono anche stati approvati un regolamento e una legge a riguardo, ma l’obiettivo non è ancora stato raggiunto perché c’è un concetto di sovranità nazionale che non si riesce a abbattere In caso di scioglimento della fondazione, tuttavia, i beni possono andare tranquillamente a un’associazione di un altro Stato.
E al di fuori dell’Europa?
L’erogazione di fondi a soggetti filantropici che hanno residenza fuori dall’Italia è sempre possibile. Se diventa attività prevalente della fondazione è possibile ottenere il riconoscimento giuridico acquisito il parere del Ministero degli Esteri. È una questione un semplicemente di procedura. Bisogna però escludere che ci sia da parte della fondazione il concorso ai fondi della cooperazione internazionale. Se uso solo mio patrimonio, devo farmi riconoscere a livello nazionale e poi la prefettura acquisirà i pareri di cui ha bisogno. Ci deve essere poi una presa visione positiva da parte del Ministero. I problemi si pongono in caso di scioglimento.
Perché?
Se il patrimonio residuo viene devoluto all’estero, occorre una prova che non si tratti di un’operazione illecita. Si può agire anche in maniera borderline: io scelgo un ordinamento particolarmente favorevole, in caso di scioglimento devolvo il patrimonio magari a un’associazione costituita in quel paese, che consente a sua volta in caso di scioglimento la restituzione dei beni agli associati. Se si vuole utilizzare in maniera maliziosa si può fare, per questo c’è più attenzione, mentre ce n’è meno appunto verso fondazioni che iniziano a operare direttamente in un paese estero.
E – tornando al caso dei reali – negli Stati Uniti?
Se si parla degli Stati Uniti, è ancora in vigore una convenzione Italia-Usa datata 1948. Questa prevede un accordo bilaterale su associazioni e fondazioni per il quale si verifica che i requisiti costitutivi della fondazione statunitense siano conformi al nostro ordinamento. Per prefettura e regioni è una presa d’atto. E lo stesso vale al contrario. Se si parla di Usa, quindi, ogni accordo va costruito a sé, ma è assolutamente possibile.