Molti avranno visitato una delle sue Infinity Mirrored Room, come quella al Louisiana Museum di Copenhagen, “Gleaming Lights of the Souls” (2008), che bel titolo! Le pareti e il soffitto sono ricoperte di specchi, mentre il pavimento è una superficie d’acqua riflettente. Lo spettatore è sospeso nel buio, su una piattaforma sopraelevata in uno spazio di 4metri per 4, nel mezzo del nulla, un nulla fiabesco, di infinite piccole luci colorate, lampeggianti. Un prato di lucciole.
Meno poetica e quasi psichedelica, l’opera esposta alla Fondazione Louis Vuitton a Parigi nel 2019, dal titolo evocativo “Phalli’s field”. Una foresta colorata di “funghi” bianchi a pois rossi realizzati in cotone soffice che circondano lo spettatore, sparsi a grappoli ovunque, in una stanza interamente ricoperta di specchi. Si perde completamente il senso dello spazio e il posto del proprio corpo nella realtà. Si sparisce, come un piccolo punto tra milioni di punti, come un piccolo pianeta in una galassia sterminata. Ma non ci si perde nel nulla, ci si armonizza, si diventa piuttosto una parte del tutto.
Inizia a disegnare da bambina, a dieci anni. Nel disegno trova pace alle allucinazioni che la tormentano. Racconta lei stessa come i motivi floreali di una tovaglia sul tavolo potessero ricoprire improvvisamente tutta la stanza, o come una grande zucca dell’orto iniziasse inaspettatamente a parlarle, terrorizzandola. Il suo smarrimento si placa solo nel disegno. Fogli e fogli, fittamente ricoperti di punti, linee e griglie perfettamente disegnati. L’arte come cura, un aiuto a dominare un mondo interiore inquieto.
Il suo lavoro non sarebbe stato lo stesso senza la parentesi newyorkese nella seconda metà degli anni Cinquanta (dal 1958). Entra in contatto con Warhol, Rosenquist e Oldenburg e, pur essendo sempre un’outsider, donna giapponese in un mondo di artisti prevalentemente uomini, con la sua creatività ricopre un ruolo importante nel panorama artistico di quegli anni e diventa un link tra la pop art e il minimalismo. Nascono a New York le installazioni, gli happenings, e le “Infinity Nets”, dipinti monocromatici, spesso di grandi dimensioni, in cui, partendo da un angolo della tela, senza esitazioni né bozze, dipinge trame di pois e reticolati ripetuti all’infinito.
All’inizio degli anni Settanta torna in Giappone e dal 1977 vive volontariamente in un ospedale psichiatrico. Ancora oggi il suo studio è dall’altra parte della strada e tutti i giorni va a lavorare con un piccolo team di assistenti. “Se non fosse stato per l’arte, mi sarei uccisa molto tempo fa”.
Il senso di stupore fiabesco, la fantasia a volte allucinatoria e il colore delle sue opere hanno un impatto immediato su chi le guarda. Nelle Infinity Mirror Rooms poi, lo spettatore diventa anche parte dell’opera, libero di perdersi in un mondo fuori dal mondo. Tutto questo rende il lavoro di Kusama molto riconoscibile, fotografato e pubblicato (soprattutto su Instagram). Da qui è nata molta della sua notorietà.
Victoria Miro di Londra, una delle gallerie che la rappresenta, racconta che nel 1998 (la preistoria del digitale) quasi nessuno visitò l’installazione di Kusama. L’ultima esposizione ha avuto 80.000 visitatori (un numero enorme per uno spazio privato). D’altra parte, per una sua mostra, The Broad Museum di Los Angeles ha recentemente venduto in un pomeriggio 90.000 biglietti e si stima che più di 5 milioni di persone abbiano visitato le sue installazioni negli ultimi cinque anni.
Il 29 Marzo, La Tate Modern di Londra, dopo un anno di attesa, dovrebbe (speriamo) inaugurare una delle sue più grandi installazioni: “Infinity Mirrored Room – Filled with the Brilliance of Life”, insieme a “Chandelier of Grief”, uno sconfinato universo di lampadari di cristallo rotanti. Una sua retrospettiva è anche in programma nel 2021 al Gropius Bau di Berlino e al Giardino Botanico di New York. Non ci resta che sperare di poter rivedere i musei aperti per ritrovare anche noi un po’ di infinito.