Un recentissimo interpello dell’Agenzia delle entrate, non ancora reso pubblico, si occupa di una particolare attività connessa alle criptovalute, denominata “staking”.
In attesa di conoscere i dettagli della pronuncia (emanata dalla Direzione centrale piccole e medie imprese, e numerata 956-771/2022), vale la pena di illustrare sinteticamente l’attività in questione.
La stessa rappresenta una sorta di “reazione ambientalista” al grande dispendio di energia elettrica richiesto dai protocolli di validazione usati da varie blockchain, come quella dei bitcoin (Btc), a supporto delle transazioni realizzate sulle stesse, e basate sui modelli “proof-of-work”.
Come mai energia elettrica? I cosiddetti “minatori” creano criptovalute risolvendo, in competizione temporale tra loro, algoritmi matematici particolarmente complessi – il primo a risolvere aggiunge un “blocco” alla “catena dei blocchi” (blockchain), e guadagna criptovaluta. Maggiore la potenza computazionale, maggiori le probabilità di risolvere per primi: purtroppo, la potenza comporta consumo di energia elettrica (ecco perché i “miners” sono concentrati nei paesi con le bollette più “leggere”).
Proprio al fine di contenere tale “spreco” di energia (e ridurre il conseguente impatto ambientale) al “proof-of-work” è stato affiancato il “proof-of-stake”, vale a dire un sistema alternativo di validazione che comporta l’acquisizione e la custodia di un certo numero di token da utilizzare per validare le transazioni effettuate tramite una data blockchain; in questo caso il validatore è remunerato con un rendimento (tasso di interesse), variabile a seconda della rete coinvolta, in funzione di diverse variabili.
Ciò premesso, il quesito verteva essenzialmente sulla natura del reddito corrispondente a tale remunerazione: reddito di capitale o, quale categoria di natura residuale, reddito “diverso”?
Secondo il contribuente non si tratterebbe di reddito di capitale, soprattutto in considerazione della natura dei rischi che tale attività sottende: informatici e non finanziari (in quanto legati all’attività di validazione e non alla possibile perdita del capitale investito).
Di avviso diverso l’amministrazione finanziaria, che nel richiamare una circolare del 1998 (precisamente la n. 165, legata alla famosa riforma “Visco”, che interessò anche i redditi di capitale), ha ricordato come per la configurabilità di un reddito di capitale sia sufficiente l’esistenza di un qualunque rapporto attraverso il quale venga posto in essere un impiego di capitale – sono quindi redditi di capitale anche “tutti quei proventi che trovano fonte in un rapporto che presenti come funzione obiettiva quella di consentire un impiego di capitale”.
A modesto avviso di chi scrive, però, l’impiego di capitale (finanziariamente inteso) deve rappresentare il fine ultimo (in altre parole: si può prescindere dal tipo di rapporto sottostante, purché “serva” a consentire un impiego di capitale); nel caso dello “staking”, al contrario, l’impiego di capitale appare a sua volta strumentale a un ulteriore scopo, che è quello, come sopra accennato, di validare le transazioni sulla blockchain: un’attività pur sempre “rischiosa”, ma difficilmente inquadrabile come “finanziaria” (ancorché la misura di remunerazione – e ciò rappresenta indubbiamente un elemento potenzialmente fuorviante – sia rappresentata da un tasso di interesse).