Assicurazioni e fondi pensione gestiscono decine di migliaia di miliardi nel mondo: le loro scelte di investimento saranno sempre più rivolte alle società che puntano a neutralizzare le proprie emissioni
Secondo un recente rapporto di Aviva il 52% delle assicurazioni e il 50% dei fondi pensione ha già messo in campo un piano net zero entro il 2050
Se nel 2020 le assicurazioni che avevano una strategia net zero al 2050 erano il 44%, la percentuale ora è salita al 52%; per i fondi pensione il balzo è stato ancor più evidente: dal 33 al 50%. Un altro 20% delle assicurazioni e 17% dei fondi pensione, inoltre, ha dichiarato di avere piani net zero, ma “non prima del 2050”. Sommando alle precedenti anche le società che ritengono sia in cantiere un impegno di questo tipo, si ottiene un 92% delle assicurazioni e un 93% dei fondi pensione che possono dirsi proiettati verso una politica di investimento net zero.
E’ il segno che gli investitori istituzionali stanno rapidamente adeguando le loro politiche di investimento agli obiettivi climatici cruciali per il pianeta. Data la loro “potenza di fuoco”, fatta di decine di migliaia di miliardi, un cambiamento nelle politiche di investimento rischia di rendere più costosa, in prospettiva, la raccolta di capitale per quelle società che non compenseranno le proprie emissioni entro il 2050 (che cosa sia il net zero l’avevamo approfondito qui).
A livello geografico c’è una certa unità di intenti fra le assicurazioni attorno all’obiettivo net zero con una prevalenza delle assicurazioni europee (53% hanno un piano entro il 2050%. Se si parla di fondi pensione, invece, sono quelli nordamericani i più determinati (60%), davanti a quelli europei (47%) e quelli dell’area asiatico-pacifica (41%).
“Anche se puntano in alto, i fondi pensione e le compagnie di assicurazione sono pienamente consapevoli delle sfide di raggiungere il net zero, in un mondo che tradizionalmente ha ottenuto i suoi migliori rendimenti attraverso attività ad alta intensità di carbonio come l’energia e lo sviluppo”, ha precisato il rapporto.
“Qualsiasi chief investment officer o senior fund manager dirà che l’Esg è il loro problema numero uno – o almeno il numero tre”, ha dichiarato ad Aviva Lee Bruce, responsabile della valutazione dei fondi presso l’agenzia immobiliare globale CBRE, “il problema più grande è la regolamentazione in arrivo, che costringe a un reporting più trasparente, perché se non sei allineato con i principi Esg non attirerai denaro”.
Nell’ambito delle strategie di real asset (immobili, infrastrutture, energia), ha rilevato il rapporto, il 55% dei fondi pensione e il 50% degli assicuratori considera cruciale il fatto che i gestori integrino le componenti Esg nel processo di investimento.
Più in generale, la propensione degli investitori istituzionali per i real assets ha continuato a rimanere alta, con l’82% degli assicuratori e il 77% dei fondi pensione a livello globale che dichiarano l’intenzione di aumentare o mantenere la propria esposizione nei prossimi 12 mesi.
Le infrastrutture digitali sono quelle che attualmente attraggono di più gli investitori, con rendimenti costanti derivanti dalle attività che cercano di migliorare la connettività, ha dichiarato l’ad di Aviva Investors per le infrastrutture, Darryl Murphy. Nel breve termine, ha aggiunto, c’è ancora voglia di investire nelle energie rinnovabili, e a medio termine l’idrogeno e gli investimenti per la cattura e lo stoccaggio della CO2. Ma ci sono anche sfide a breve e medio termine per altre altri asset infrastrutturali – in particolare gli aeroporti.
“Il nostro ultimo studio rivela il ritmo al quale i real assets si stanno evolvendo come asset class rispetto alle questioni climatiche ed Esg, e quanto tali considerazioni siano ritenute cruciali nel processo decisionale degli investimenti”, ha affermato Daniel McHugh, CIO, Real Assets di Aviva Investors, “ciò indica uno shift fondamentale verso la misurazione e la quantificazione di questi fattori, piuttosto che un impegno formale attraverso promesse e allineamento delle politiche. In parte questo è il risultato di una migliore comprensione degli elementi coinvolti, ma anche perché i risparmiatori finali controllano maggiormente i potenziali fenomeni di greenwashing”.