A partire dal 2020, l’emergenza sanitaria da Covid-19 e le collegate misure imposte dai vari Stati (quali i lockdown nazionali, la chiusura delle frontiere, ecc.) hanno inevitabilmente accelerato l’implementazione della modalità di lavoro in smart working, costringendo molti lavoratori a lavorare dalle proprie abitazioni, a volte ubicate anche in Paesi diversi da quello in cui l’attività lavorativa era precedentemente prestata in presenza.
La diffusione dello smart working ha sollevato diversi dubbi interpretativi, anche di natura fiscale: dalle implicazioni in tema di residenza fiscale del lavoratore in mobilità, al rapporto tra lo smart working e alcuni particolari regimi di tassazione dei redditi di lavoro dipendente.
Si tratta di temi che, considerate le implicazioni fiscali potenzialmente derivanti dalle nuove modalità di lavoro imposte dall’emergenza sanitaria, sono stati affrontati dall’Ocse fin dalle prime fasi della pandemia. L’Organizzazione, infatti, già nell’aprile 2020 ha prontamente emanato (per poi aggiornale a gennaio del 2021) delle linee guida in materia, con l’intento di guidare gli Stati aderenti nell’interpretazione delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. In estrema sintesi, l’Ocse ha suggerito ai Paesi aderenti di non considerare le situazioni temporanee determinate da tale “causa di forza maggiore”, facendo esclusivo riferimento ai comportamenti che sarebbero stati tenuti in uno scenario di normalità, senza dare rilevanza alle deviazioni dettate dall’emergenza e dai vincoli alla mobilità imposti dai governi.
In questo contesto, l’Amministrazione Finanziaria italiana ha ricevuto diverse istanze di interpello volte a fugare i dubbi sollevati dalle nuove modalità di lavoro a distanza, le cui risposte – esaminate nel prosieguo del presente contributo – sembrano destinate a rimanere validi riferimenti interpretativi anche nel futuro, stante la crescente diffusione del fenomeno del lavoro da remoto.
Lo smart working e la residenza fiscale
L’Agenzia delle Entrate si è pronunciata sui rapporti tra smart working e residenza fiscale con la risposta ad interpello n. 458 del 7 luglio 2021.
La società multinazionale istante, in qualità di sostituto d’imposta, chiedeva di conoscere il trattamento fiscale applicabile in relazione ad alcuni dipendenti italiani distaccati presso le proprie consociate cinesi ed iscritti all’Aire, ma tornati a lavorare in Italia in modalità di smart working a causa delle restrizioni introdotte dalla legislazione emergenziale.
Nell’argomentare la propria risposta, l’Amministrazione sottolinea in primis che l’analisi pubblicata dall’Ocse sull’impatto delle misure anti-Covid sui Trattati Internazionali, trattandosi di una raccolta di meri criteri ermeneutici, possa trovare applicazione nei soli casi in cui l’Italia abbia stipulato un accordo interpretativo con l’altro Stato coinvolto (come avvenuto, ad esempio, con l’Austria, la Francia e la Svizzera).
Pertanto, poiché nel caso di specie non risulta stipulato alcun accordo interpretativo, qualsiasi implicazione in tema di residenza fiscale deve essere valutata alla luce delle disposizioni dell’ordinamento italiano, in combinato disposto con le norme convenzionali contenute nella Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra Italia e Cina.
Occorre pertanto far riferimento ai criteri indicati nell’articolo 2 del D.p.r. 917/1986, c.d. Tuir, il quale stabilisce che si considerano residenti in Italia le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.
Assume altresì rilievo l’articolo 4 della Convenzione stipulata con la Cina che stabilisce, al paragrafo 2, le cosiddette tie breaker rules per dirimere eventuali conflitti di residenza tra gli Stati contraenti. Dette regole fanno prevalere il criterio dell’abitazione permanente cui seguono, in ordine gerarchico, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità.
Posto quanto sopra, l’Amministrazione non dà corso al suggerimento dell’Ocse di non tener conto di comportamenti imposti da “cause di forza maggiore”, ma interpreta in via meramente letterale le norme ordinariamente applicabili senza ponderarle con le circostanze di fatto eccezionali dovute alla pandemia. Così operando, l’Agenzia conclude che un lavoratore distaccato in Cina ed iscritto all’Aire, che abbia svolto nel 2020 il proprio lavoro in smart working dall’Italia e abbia trascorso nel nostro Paese un periodo superiore a 183 giorni, deve essere considerato fiscalmente residente in Italia, in quanto è qui che risulta avere il domicilio per la maggior parte del periodo d’imposta.
Inoltre, nel medesimo contesto, l’Agenzia nega anche l’applicabilità al caso specifico della disciplina della c.d. retribuzione convenzionale in base alla quale quei lavoratori italiani che si trovino a prestare la propria attività lavorativa all’estero per oltre 183 gg all’anno, mantenendo però la residenza fiscale in Italia, possono assoggettare a tassazione in Italia non il reddito effettivamente percepito ma una retribuzione c.d. “convenzionale” (normalmente inferiore) determinata annualmente con Decreto del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale. Tale agevolazione – disponibile per chi lavora all’estero per oltre 183 gg all’anno, è stata negata a causa della presenza sul territorio italiano del lavoratore dipendente per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi a causa della pandemia.
Quest’ultimo principio, relativo al rapporto tra smart working e disciplina della retribuzione convenzionale, è stato di recente ribadito dall’Amministrazione Finanziaria nella risposta ad interpello n. 590 del 15 settembre 2021.
Lo smart working e la ripartizione della potestà impositiva tra Stati
Con la recente risposta ad interpello n. 626 del 27 settembre 2021, l’Agenza delle Entrate ha chiarito il trattamento impositivo da riservare al reddito di lavoro dipendente percepito nell’anno d’imposta 2020 da una cittadina italiana iscritta all’Aire e residente fiscalmente in Lussemburgo, che dal marzo dello stesso anno (e quindi, per più di 183 giorni) aveva svolto la propria attività lavorativa dall’Italia in regime di smart working a causa della pandemia.
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 23 del Tuir, sono soggetti a tassazione in Italia tutti i redditi di lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato da parte di soggetti non residenti.
Per quanto riguarda le fonti convenzionali, invece, il Trattato contro le doppie imposizioni tra Italia e Lussemburgo prevede la tassazione esclusiva dei redditi da lavoro dipendente nello Stato di residenza del beneficiario, a meno che l’attività lavorativa, a fronte della quale sono corrisposti i redditi, sia svolta nell’altro Stato contraente: ipotesi in cui i predetti emolumenti sono assoggettati a imposizione concorrente in entrambi i Paesi.
Poiché, anche in base alle indicazioni del Commentario Ocse, per “luogo di prestazione dell’attività lavorativa” deve essere inteso il luogo dove il lavoratore dipendente è fisicamente presente quando esercita le attività per cui è remunerato, l’Agenzia conclude a favore della rilevanza fiscale anche in Italia del reddito conseguito nel 2020 dalla contribuente (con conseguente eliminazione della doppia imposizione attraverso il riconoscimento di un credito d’imposta da parte del Lussemburgo, Stato di residenza del lavoratore dipendente).
Lo smart working e il regime speciale per lavoratori impatriati
Si registrano, infine, due pronunce che analizzano le interazioni tra smart working e applicabilità del regime dei c.d. “impatriati”, di cui articolo 16, comma 1, del D.Lgs. 147/2015, in virtù del quale i redditi di lavoro di fonte italiana – al ricorrere dei relativi requisiti – concorrono solo in parte alla determinazione del reddito imponibile.
Con la risposta ad interpello n. 596 del 16 settembre 2021, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che, risultando soddisfatti tutti i requisiti previsti dalla legge, il contribuente cittadino italiano che si sia trasferito all’estero nel 2013 e nel 2021 abbia fatto ritorno in Italia per lavorare in smart working per conto di una società estera, ha pieno diritto a beneficiare del regime di favore.
Con la risposta ad interpello n. 621 del 23 settembre 2021, l’Amministrazione ha esaminato il caso di un lavoratore dipendente che, avendone i requisiti, si era trasferito in Italia nel 2019 fruendo di detto regime di tassazione agevolata, ma che – durante la pandemia – si è trovato bloccato nel Paese di origine e non aveva potuto fare rientro in Italia.
Anche in questo caso, l’Agenzia àncora la propria risposta al luogo di effettiva prestazione dell’attività lavorativa ed, in questo caso, nega l’applicabilità del regime di tassazione agevolata laddove il lavoratore, ancorché per cause di forza maggiore, si trovi a svolgere la propria attività lavorativa dall’estero in regime di smart working anziché dall’Italia. Tali redditi, infatti, non potendo considerarsi prodotti nel territorio dello Stato – avendo il dipendente lavorato in regime di lavoro da remoto dal proprio Paese di origine – non possono accedere al regime di tassazione agevolata, ma concorrono ordinariamente alla determinazione del reddito imponibile in Italia (ove il dipendente è fiscalmente residente).